Intuizioni e pensieri in libertá a partire dalla foto della scala di Palazzo Contarini a Venezia
La leggerezza. Una decorazione di panna che sale verso l’alto e sembra impossibile possa anche scendere. Un dolce arzigogolo bianco latte che si arrotola, srotola nel cielo blu. Una meringa.
La scala a chiocciola
Leggera ansia ed adrenalina. Ilpettorale è statoappuntatosullamagliettacon la scritta“ALL RUNNERS ARE BEAUTIFUL” di cui sono rimaste visibilisolo le prime due parole. Anche la vestizione ha il suo rituale: la vaselina nei punti delicati, la protezione solare, il marsupio agganciato ai fianchi, calzini e scarpe ben allacciate.
L’ennesima prova a cui ci si sottopone volontariamente, sapendo che si soffrirà ma pronti ad assaporare delle emozioni fortissime, potenti.
Ma da che cosa stai scappando? Sei una trottola che gira a vuoto oppure sei una scala a chiocciola che si avvita su se stessa, come quella della Cupola di san Pietro che si restrige sempre di più salendo, claustrofobica? A chi e che cosa vuoi dimostrare?
Non ci sono risposte.
Nell’attesa della partenza si staattentialla gente intorno, tanta, ognuno con la suastoria. Poiinizia a usciredaglialtoparlanti una marcia di Dvorac, alle nove in punto un applauso fa capire che i primi sono partiti, il fiume di gente di cui faccio parte incomincia ad avanzare lentamente, mi viene da piangere mentre sento l’energia intorno e delle persone dalle finestre in alto che ci battono le mani e ci incoraggiano.
Quando passo sul sensore dello start l’orologio in alto segna le 9:11:36.
Niente eleganza o raffinatezza, il senso estetico in questo caso sfiora il masochismo, però è presente e aleggia soffuso in quel pizzicore alla nuca, insomma è un vago piacere mentale.
Si tratta di una forma di meditazione, di un dialogo costante con se stessi, è tutto un “dai che ce la puoi fare”, ascoltando i piccoli segnali del corpo che ti rispondono affermativamente, mentre la testa tenta di metterti il bastone tra le ruote: “sei solo al decimo chilometro, amministra le forze altrimenti non ce la farai, andrai in affanno, le gambe dure come pietre, il sole in faccia tra poco ti farà impazzire, il caldo diventerà insopportabile, forse ti scapperà la pipì o ti verrà un fortissimo mal di pancia…”
Eppure continui ad andare avanti, hai paura che capiti qualcosa, e così tenti di esorcizzare la paura dello spavento e della morte, e questa è l’associazione con ilgotico che regna in questacittà, cupa e misteriosa.
Scagliono i 42 chilometri e 195 metri in segmenti: ogni otto faccio partire una puntata del programma radiofonico Parole e Note che alterna una scaletta musicale di altissimo livello ad estratti di brani poetici commentati e recitati mirabilmente. Wislava Szymborska, Pedro Salinas, Eugenio Montale e tanti altri mi fanno compagnia, a volte mi illuminano come dei fasci di luce brillante e mi sembra di avere capito il mistero, altre sono solo un sottofondo mentre il cervello cerca di rispondereragionandoallosforzoe allafatica.
Ogni quattro o cinque chilometrici sonodeilunghitavolidaiqualimoltii volontarioffronobicchieri di acqua o di gatorade, con vaschette piene di spicchi di arancia e di pezzi di banana, bustine di zucchero e di sale; a volte ci sono le cosiddette spugnature ovvero spugne inzuppate di acqua con cui rinfrescarsi e verso la fine dei camion che fanno delle docce di acqua nebulizzata.
Ad un certo punto i punti musicali, il pubblico ai bordi della strada che ti offre il palmo, quelli che cercano di attraversare magari con il passeggino o le buste dello shopping, incominciano a darmi un grande fastidio, mi disturbano, è come se mi volessero mettere il bastone tra le ruote e penso irrazionalmente “ma cosa ne sapete voi di che cosa sto passando io qui, la vostra attenzione è solo di facciata, in fondo siete tuttideigrandiindifferentiedinsensibiliallesofferenzealtrui…”. La faticaincarognisce.
E poi ci sono i miei compagni di avventura, quelli che riconosco per l’abbigliamento che ogni tanto mi superano baldanzosi e che poco dopo vedo camminare e quindi li supero io, ma è solo uno spalleggiarsi, non c’è in me competizione od agonismo, facciamo un cammino insieme come dei pellegrini condividiamo un pezzo del tragitto.
Un mio alunno ha paragonato la vita ad una maratona ed io sono d’accordo con lui.
Gli ultimi due chilometri questa volta sono di grande dolore ma vado avanti a testa bassa e a falcate piccole, mi trascino. Però quando alzo lo sguardo di fianco a me c’è una ragazza, e continuiamo così una a fianco all’altra senza guardarci, percependo una presenza. Quando si intravvede l’arrivo nella grande piazza è un momento magico: ci guardiamo ed assaporiamo insieme il momento, attraversiamo il traguardo dandoci la mano alzata. Non parliamo, è pura gioia.
L’orologio in alto segna le 14:18:32.
Unaspirale ben tracciatadellasfida, dellasofferenza, dell´autoesigenza in cui ognisportivo ,edogni persona chesisottopone a questotipo di prove, puóriconoscersi.
Interessanti le allusioniallamentechesiapreall´esterno e sichiudesu se stessa, una specie di sistole-diastole cheaccompagnailritmodeituoipassi, ovvero del racconto. Unfuori-dentroche é ilsensodella vita di chi decide di misurarsisempre con lei. Brava, Giorgia, ilmovimentocircolare non simisura, ovvero le misureassumono un valoresecondario, relativo (non so se mi spiego…forse é unamiaelucubrazione ,regalo del tuobeltestosuggestivo). Haiusato due volte la metaforadelbastonetra le ruote, te lo segnalo solo perchépotrestisostituirla in unodei due casi, o no, lasciandola come unaripetizioneintenzionale
Mi è piaciuto tantissimo. Mi fai sempre venire un po’ di magone, ma nel senso buono del termine