Campo aperto n.1


Jean Baptiste Camille Corot, Tivoli. I giardini di villa d’Este (1843)
Trascrizione di intuizioni e pensieri in libertá a partire dall´ immagine di Corot
Atmosfera sospesa, tutto è fermo e caldo. E poi guardo bene la persona seduta sul muretto e mi accorgo che è troppo piccolo rispetto al paesaggio circostante, un pupazzo, un burattino, un fantoccio.

Mamma dove sei?

Avrò avuto sei anni quando la mamma, (se  cambiamo il tempo al presente,qui dovràa cambiare il verbo) in un piovoso pomeriggio invernale mi disse (mi dice): “Vado a comprare due cose dalla Rosa e torno. Ci impiegherò dieci minuti, un quarto d’ora al massimo.”

Ecco un’altra prova dicoraggio. Io la guardai (guardo) credo come un cane bastonato che affronta le botte facendo finta di niente e le dissi (dico) che andava bene, anche se non avevo (ho) la minima idea di quanto lunghi fossero (siano) dieci minuti e tanto meno un quarto d’ora. E così lasciò (lascia) me e mia sorella per la prima volta a casa da sole. Esperienza terribile.

All’inizio feci (faccio) la spavalda mentre mia sorella, più piccola di due anni, di certo inconsapevole del grave rischio che ci apprestavamo (apprestiamo) a correre, mangiucchiava (mangiucchia) qualcosa sul divano.

Seguii (seguo) mia madre dalla finestra mentre al buio percorse (percorre) i venti metri della via in cui abitavamo (abitiamo), svoltò (svolta) a destra lungo i circa trenta metri che le servirono (servono) per arrivare in Piazza Lazio, fino a che oltrepassò (oltrepassa) il bar all’angolo e sparì (sparisce) definitivamente dalla mia vista. A questo punto incominciò (incomincia) l’attesa, e fu (è) spasmodica.

Per riuscire a calcolare i dieci minuti me la immaginai (immagino) camminare fino a Corso De Rege, attraversare la strada (siccome non avevo sentito (sento) urli di sirene, di certo non era stata (sarà stata)  investita), ed entrare nel negozio di alimentari della sua amica Rosa. Mentre continuavo (continuo) a fissare il bar all’angolo sognando il momento in cui l’avrei rivista, pensai (penso) ai passi che aveva (ha) dovuto fare: a quest’ora è (sarà) sicuramente arrivata e sta (starà) comprando prosciutto e formaggio; adesso  sta (starà) pagando…ora saluta (saluterà) e se ne va (andrà).

Il calcolo del tempo continuò (continua) e mi sembrò (sembra) eterno; immaginai (immagino) le catastrofi peggiori: rapimento, assassinio, fuga volontaria… a quest’ora sarebbe già dovuta essere a casa… ci ha abbandonate, non la rivedremo più, dovremo cavarcela da sole, perché lei è sparita per sempre.

Guardai (guardo) mia sorella che se ne stava (sta) traquilla ed impassibile, un po’ la odiai (odio), un po’ la invidiai (invidio); come farò a dirle che la mamma non c’è più? Sole, siamo sole e lo saremo eternamente.

Fino a quando lei riapparve (riappare): sarà davvero la mamma o è una figura che le assomiglia quella che cammina(camminava)  fuori al buio? Ma è (era)davvero lei, indubbiamente lei. L’eternità di tutte le attese del mondo si era svolta (è svolta) in dieci minuti, forse un quarto d’ora.

Il testo è ben costruito e equilibrato in tutte le sue parti. La scelta del tempo in cui narrare è puramente una questione di gusto ( per me che ti leggo) oppure di necessità ( per te che racconti). Dico necessità perché mi sembra che la forte emotività che hai abilmente camuffato mettendoti a giocare con i tempi verbali ti mette comunque davanti a una scelta: vuoi solo relegare questa storia al passato, dichiarandola conclusa e lontana (passato remoto) o la metti in relazione con qualcosa che vive in te tuttora ( presente)? Credo che al di là delle questioni formali il vero gioco da giocare sia questo.

Brava Giorgia, sei sempre pronta a sfidarti e misurarti con il nuovo.

2 pensieri su “Campo aperto n.1

  1. Sai che mi ricordo benissimo la tua immagine, di schiena, le mani appoggiate al vetro, più in alto della testa, come se qualcuno ti avesse ordinato un “ferma! Mani in alto!”
    In effetti dall’angolazione probabilmente ero sul divano. Ma guardavo te, non ero distratta. Forse sapevo che la tua preoccupazione bastava per tutte e due. Forse perché, dopo la mamma, eri tu la persona più grande. Non era mio compito preoccuparmi. Non ancora. C’eri tu.

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